Lavoro. I dati del precariato e dei bassi salari che Renzi
non "vede". 1990-2014: il salario medio di un dipendente privato ha
perso 3 punti percentuali, nell’Eurozona in media ne ha guadagnati 15
Com’era prevedibile Matteo Renzi si è affidato alla guerra dei
decimali per cercare di dimostrare che in Italia spira aria di ripresa.
Ma si tratta di uno striminzito 0,8% in più, persino meno di quanto era
nelle previsioni del ministro dell’Economia.
D’altro canto l’Istat aveva già segnalato ai primi di dicembre che la
tendenza è quella al rallentamento dell’economia italiana. Quindi c’è
da dubitare sul raggiungimento degli obiettivi già modesti di fine 2016.
Sarà per recuperare credibilità dopo gli scandali bancari tuttora in
pieno svolgimento, sarà perché ormai è evidente anche ai ciechi, nella
conferenza stampa di fine anno il Presidente del Consiglio ha mostrato
una certa aggressività verbale verso le politiche europee.
«Di sola austerità il Continente muore» ha affermato, mentre l’Italia
avrebbe puntato più sullo sviluppo, solo che le autorità europee non
vogliono riconoscerle la flessibilità desiderata sui conti.
Quando gli fa comodo Renzi è pronto a giocare la carta
dell’europeista incompreso. Ma è una coperta troppo corta. Sia perché
fin dal suo sorgere la renzeconomics si è dimostrata una semplice
articolazione delle politiche europee; sia perché l’attuale performance
del nostro paese è nettamente inferiore a quella media dell’Eurozona;
soprattutto perché l’irresponsabilità di fronte alla gravità della
situazione è totale. Tecnicamente la recessione finisce nel primo
semestre del 2015, tuttavia la vantata ripresa è non solo lenta, ma
inadeguata a colmare l’abisso che abbiamo alle spalle. Alla fine del
2014 gli investimenti erano del 35% più bassi che nel 2007. Altro che
sviluppo italiano. Nel solo periodo 2012–2014 il Pil si è ridotto del
5%, più o meno come nel lontano 1929!
Certo, la crisi italiana viene da più lontano. Tra il 1995 e il 2007
la nostra crescita media annua è stata del 1,6% contro il 2,4 della
media dell’Eurozona. Nello stesso periodo abbiamo accumulato uno
svantaggio di 19,3 punti di Pil rispetto a quest’ultima. Anche quando
l’occupazione è cresciuta è avvenuto in misura inferiore che negli altri
paesi europei. E i salari? Tra il 1990 e il 2014 il salario medio di un
dipendente privato italiano ha perso tre punti percentuali al netto
dell’inflazione, mentre nella media dell’Eurozona è cresciuto del 15%.
Proprio quest’ultimo dato spiega la bassissima crescita di produttività
italiana messa al confronto con quella nella Ue. Infatti sono gli
aumenti salariali che trascinano in alto la produttività e non il
contrario, come invece si vorrebbe condizionando gli aumenti dei primi
all’innalzamento della seconda. Solo la frusta salariale – ce lo
ricordano i più attenti economisti — spinge anche il più pigro
imprenditore all’innovazione, fattore decisivo per lo sviluppo della
produttività di sistema.
Renzi sembra non avere alcuna consapevolezza di tutto ciò. Anzi spara
cifre, come l’aumento di 300mila posti di lavoro, a seguito del Job
Act, peraltro nello stesso giorno in cui l’organo della Confindustria ne
stima 200mila. In ogni caso nella attuale lunga crisi abbiamo perso un
milione di posti di lavoro. Se guardiamo al tasso di occupazione
dovremmo crearne almeno 7 milioni per metterci al passo. In realtà da
quando è stata introdotta la decontribuzione, cioè dal 1° gennaio
i posti di lavoro, secondo Il Sole24Ore, sono cresciuti di 185mila unità
fino al settembre 2015. Se si confronta il periodo analogo del 2014, in
assenza degli attuali incentivi, risultano solo 26mila posti in più,
pagati a carissimo prezzo.
L’Istat ci dice che le assunzioni a termine hanno avuto una impennata
proprio dopo l’entrata in vigore del cosiddetto contratto a tutele
crescenti del Job Act, raggiungendo il loro massimo storico nel terzo
trimestre del 2015: 2 milioni e 560mila. Benché sia stato cancellato
l’Articolo 18 i padroni non si fidano. A fronte delle incertezze della
crisi economica, preferiscono il classico contratto a termine. Tanto più
che grazie al precedente decreto del ministro Poletti possono
stipularlo del tutto arbitrariamente, senza alcuna motivazione
o causale. Si ripete in sostanza quando già avvenne con la cosiddetta
legge Biagi. Tra tutte le nuove forme di contratto precario previste –
più di 40 — la preferita restava sempre quella del semplice contratto
a termine.
D’altro canto la fidelizzazione del dipendente non è necessaria
quando la produttività è bassa, la qualità del lavoro scarsa, i settori
in cui si assume sono quelli meno innovativi. E viceversa.
Questo dovrebbe suggerire a chi, dopo le recenti decisioni del
direttivo Cgil e la prevista consultazione dei lavoratori, dovrà
formulare i quesiti per un referendum abrogativo in materia di lavoro,
di non dimenticare il decreto Poletti. Non avrebbe senso ed efficacia
cancellare le norme più odiose del Job Act e lasciare in piedi un
contratto a termine a totale discrezionalità padronale.
http://ilmanifesto.info
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