Marchionne preme sull'acceleratore per condurre in porto l'acquisto totale di Chrysler. Un'operazione che segnerà la scomparsa del marchio italiano e lo spostamento della testa del Lingotto a Detroit. L'analisi del sociologo Sivini
Entro l’autunno Chrysler sarà, con ogni probabilità, tutta nelle mani di Sergio Marchionne.
Banche permettendo, giacché l’operazione si regge sul sostegno di un
pool di istituti di credito (tra gli altri, secondo l’agenzia Bloomberg,
Bank of America, Deutsche Bank, Goldman Sachs e BNP Paribas) che
dovrebbe erogare un finanziamento di circa 10 miliardi di dollari. Ma la
realizzazione del vecchio sogno americano di Marchionne sancirà la
definitiva scomparsa della Fiat, almeno del profilo industriale come l’abbiamo finora conosciuta nel suo secolo di vita. Ne è certo Giordano Sivini,
professore di sociologia politica, tra i più attenti studiosi dei
processi di governance industriale, che sui più recenti sviluppi del
gruppo del Lingotto ha dedicato un libro “Marchionne e gli Agnelli. Compagni di rendite”
(edizione Stampa Alternativa) da oggi in libreria. Nell’analisi di
Sivini il destino è segnato: «Nelle strategie di Marchionne Fiat Group
Automobiles è diventata la bad company della holding. Dal punto di vista
della distribuzione dei dividendi, Fiat Industrial è la good company
mentre le prospettive produttive sono tutte concentrate Oltreoceano, a
Auburn Hills, in Brasile e, quelle residue, in Serbia e Polonia. Ma
Chrysler ancora non dà dividendi. Quelli che la Famiglia si attende le
sono assicurati dallo scorporo delle attività industriali da quelle
dell’auto. Da qui la necessità sempre più impellente di portare a
termine la fusione e, grazie all’Ipo a Wall Street, macinare finanza: il
vero “prodotto” del nuovo gruppo».
Per
Sivini, infatti, non è l’auto il core business del futuro. «Intanto,
negli Usa sparirà il marchio Fiat, che è ancora acronimo di Fix-it Tony.
In otto anni Marchionne ha presentato otto piani: raramente ha
investito quanto promesso e quasi mai ha rispetto gli impegni. Piace
perché non rischia e gonfia il portafoglio della proprietà (e anche
abbondantemente il proprio). Marchionne pilota l’azienda a vista, con
gli strumenti di navigazione che producono buone rendite per gli Agnelli
anche in situazioni di crisi. Il valore di borsa delle Fiat è ora più
basso di quando aveva preso in mano l’azienda, ma le azioni della
Famiglia, non quotate in Borsa, generano ogni anno interessi dal 12 al
16%». In fondo, si potrebbe dire che fa bene il suo mestiere, non fosse
che in gioco c’è la sopravvivenza di uno degli ultimi gruppi
manifatturieri italiani e, non ultimo, la sorte di migliaia di
lavoratori e famiglie. «La sua strategia – continua il professore –
massimizza i benefici della Famiglia ma porta alla scomparsa di Fiat,
non solo come insieme di modelli di auto, ma come casa industriale. La
costituzione di Fiat Industrial per scissione da Fiat Auto priva
quest’ultima della possibilità di attingere, nelle situazioni di crisi
del comparto, a risorse finanziarie dipendenti dal diverso ciclo
economico. Nella fusione con Chrysler si riprodurrà ciò che è già
successo per Cnh: macinare utili sul mercato statunitense e trasferire
la holding in Olanda. Da cui, ricordo, è già scomparsa l’insegna Fiat».
Ma
neppure negli States è tutto rose e fiori. «Prese le redini del Gruppo,
Marchionne ha esordito lavorando sull’immagine e puntando su modelli
già in cantiere. Né più né meno di come aveva fatto in Italia anni
prima. Ha avviato un’importante campagna di marketing, culminata con
l’esibizione di due minuti di Eminem per il lancio della Chrysler 200
“imported from Detroit”, e con due visite di Obama alle fabbriche, e una
di Biden, il suo vice. I risultati ottenuti sono in gran parte dovuti
alle vendite in blocco. Nel 2010, il 36% delle auto sono state vendute a
compagnie di autonoleggio e ad enti pubblici, quasi il doppio delle
altre case. Nel 2011 si è trattato del 28%, nel 2012 del 26%. Inoltre,
per massimizzare gli utili ha puntato molto sulle vendite di jeep e di
suv di grosse dimensioni, i veicoli più dannosi per l’ambiente,
attirandosi molte critiche, soprattutto per aver trasgredito alle
indicazioni obamiane. La 500, messa in vendita nel 2011, conta meno del
3%». Persino sul piano dell’efficienza tecnica l’affidabilità delle
vetture targate Marchionne è stata messa in discussione dall’ente che
vigila sulla sicurezza, costringendo l’azienda a richiamare non poche
vetture per sottoporle a revisione: nel 2010 sono state 195.798 vetture
Town and Contry, 43.282 Sebring, 49.991 di 300, 219.035 Journey Dodge,
Gran Caravan e Challanger, 44.332 Dakota, 397.288 Jeep Wrangler, 60.845
Grand Cherokee. Nel 2011 le cose non sono andate meglio. «I difetti
riscontrati – spiega Sivini allo Spiffero – sono molteplici.
Riguardano, secondo i modelli, il sistema elettrico o quello idraulico o
di raffreddamento, lo sterzo, i freni, le ruote, le sospensioni, le
gomme, il motore, la trasmissione, le cinture di sicurezza, i fari, gli
air bag». Nelle jeep il difetto più ricorrente è nei freni, non proprio
il massimo di garanzia per l’incolumità. Insomma, anche il tanto
celebrato Marchionne non riuscirà così facilmente a scrollarsi di dosso
l’anatema che da sempre ha bollato in America le auto prodotte in
Italia: “Fiat, Fix It Again, Tony” (“aggiustalo di nuovo, Tony”). Magari
con un nuovo acronimo.
http://www.lospiffero.com
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