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Non esiste altro modo per rispondere alla quotidiana, sistematica strage sul lavoro.
Gli eventi di questi giorni esprimono più delle parole la drammatica realtà in cui viviamo e ci indicano il "che fare" subito.
La realtà è che il lavoratore vale meno della merce che produce e delle macchine che servono a produrre, non ha bisogno di manutenzione, si può cambiare alla bisogna con un altro lavoratore.
La realtà è che il lavoro non è più strumento di emancipazione, perché con 700, 1000 euro al mese sei comunque povero.
La realtà è che il lavoro non ha più valore, perché se fai l'operaio tuo figlio fatica a dirlo a scuola; perchè per essere imprenditore basta un giorno per aprire la partita iva, mentre per fare l'operaio servono anni di apprendistato e poi comunque rimani precario.
La realtà è solitudine totale della lavoratrice e del lavoratore dipendente.
Quando un giovane entra in una fabbrica o in un cantiere non trova più nessuno che gli trasmetta memoria ed esperienza, perché comunque ha un contratto precario e resterà per pochi mesi e se vorrà essere assunto a tempo indeterminato dovrà dire sempre sì a tutto, dovrà accettare qualunque condizione (straordinari, turni, lavoro al sabato e alla domenica, mansioni nocive e pericolose).
Così la vita perde valore e viene ridotta a elemento a disposizione della produttività e della flessibilità imposta dall'impresa.
Se si vuole intervenire con misure di emergenza, è necessario coordinare a livello nazionale tutte le funzioni pubbliche, sia a livello di Ispettorati del lavoro, sia sul piano degli interventi sanitari, sia su quello dell’azione giudiziaria.
No a depenalizzare le norme previste dal recentissimo Testo unico su salute e sicurezza.
Allora serve una reazione collettiva, identitaria. Allora un urlo deve alzarsi nel paese:
Siamo operai, precari, donne e uomini che vogliono un lavoro per vivere e non per morire!
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