Gli insulti di cui viene bersagliata, per il solo fatto di ricoprire
un incarico di governo, la ministra Cècile Kyenge Kashetu, sin dal primo
giorno del suo insediamento, ormai non si contano. Provengono da figure
“istituzionali” come il vicepresidente del Senato, Calderoli,
parlamentari europei come l’immancabile Borghezio, consiglieri regionali
e di quartiere, meno noti ma non per questo meno capaci di urlare.
Quando sono privi di una ribalta mediatica tradizionale, lo strumento
preferito per diffondere ogni tipo di squallida subcultura che mescola
razzismo e sessismo, è la rete, i social network su cui cercare ancora
proseliti. Roberto Calderoli – che forse passerà alla storia patria per
aver cesellato la peggior legge elettorale del pianeta – ha un
curriculum di denigrazioni razziste rivolte a tutto ciò che non risulti
“padano Doc”, da renderne impossibile l’intera esegesi. Basti ricordare
il furore anti islamico con corredo di insulse magliette con cui ha
causato anche l’assalto al consolato italiano a Bengasi nel lontano
febbraio 2006, la trovata del “maiale day” per impedire la realizzazione
di moschee, i reiterati inviti rivolti alla marina militare di sparare
contro le barche dei profughi, ecc.. Il collega di partito Borghezio, ha
invece alle spalle anche una condanna per incitamento all’odio
razziale, stesso linguaggio colorito, stessa rabbia e furore per una
artificiale e celtica identità. Ma si tratta, fra le “camicie verdi” di
un odio diffuso, una sorta di marchio di fabbrica con cui per anni la
Lega, sin dalle origini, ha costruito consenso. Parole semplici “padroni
a casa nostra” sono rimaste immutate (dopo i tanti scandali il vecchio
“Roma ladrona” è finito in soffitta) e ricerca forsennata di capri
espiatori per costruire un immaginario collettivo, una vera e propria
identità. Negli anni passati, i riti purificatori, i raduni di cui
spesso si coglievano solo gli aspetti più grotteschi, servivano anche
allo scopo di consolidare una presenza diffusa nei territori del centro
nord. Una presenza che si traduceva nella “vicinanza al popolo”, fra
amministratori e amministrati, in un senso di comune appartenenza che
riempiva ogni vuoto, dall’osteria, in cui si incontrava il sindaco o
l’assessore, alla fabbrica, in cui al di là della tessera sindacale che
si aveva in tasca, si sapeva di essere protetti, fuori, da un partito
che garantiva sogni a palate. Ma l’incantesimo si è rotto più volte,
frantumato in mille pezzi. E se ha colpito la mole di scandali in cui si
sono ritrovati coinvolti gli stessi che denunciavano ladrocini a tutto
spiano, con elementi di pochezza, anche nel costruirsi fonti personali
di arricchimento, più pesante si è rivelata e si sta rivelando,
l’incapacità di fornire risposte concrete alla crisi. Il crollo della
produzione industriale, la truffa che pesa come spada di Damocle, delle
“quote latte”, il disfacimento del tessuto manifatturiero, non solo nel
nord est, hanno fatto passare in pochi anni il tessuto portante
dell’economia, dalla ricchezza all’incertezza se non alla chiusura
definitiva. Per alcuni anni, l’impianto ideologico da “fabbrica della
paura” con cui, individuando nel rom, nel migrante, nell’appartenente a
cultura altra, il nemico su cui scagliarsi, ha funzionato e garantito
stabilità. Oggi, ormai, non è più una risposta che offre aspettative. E
il mito della Lega si è rapidamente sgretolato come gli antichi leader, i
raduni non hanno più presa, i loro mezzi di comunicazione sono in
perdita verticale di consenso, le campagne razziste non focalizzano i
problemi reali. Ma in politica –ed è forse un concetto banale – gli
spazi vuoti non esistono, la componente protestataria e antiparlamentare
ha trovato rappresentanza nel M5S o nel non voto e i dirigenti locali e
nazionali della Lega non riescono ad uscire da un empasse che li
potrebbe vedere distrutti definitivamente. E allora aumenta l’urlare
privo di misura, la sguaiataggine con cui si crede di poter riacquisire
consenso e credibilità e le parole devono divenire più pesanti e
offensive, mollando totalmente qualsiasi freno inibitorio. La nomina, in
un governo, prosecuzione politica del precedente e sedicente governo
tecnico, della ministra Kyenge, è divenuta pretesto per tentare un
improbabile recupero, catalizzando l’odio come vero e proprio
investimento finanziario. Saranno i prossimi mesi a far capire se il
precipizio della Lega sarà definitivo o meno, se si trasformerà in un
partito “moderatamente razzista” o se prenderanno piede le sue origini
più sanguigne e votate alla ricostruzione di un ormai perso “sogno di
purezza padana”. Comunque vada non è però il caso di abbassare la
guardia e, oltre ad esprimere solidarietà e appoggio alla ministra
Cécile Kyenge e alle sue campagne, è necessario guardare oltre. Basta
viaggiare fra i social network per percepire un rumore più profondo e
violento. Un rumore che riecheggia rigurgiti nazisti e soluzioni prese
in prestito dagli anni più bui della storia italiana ed europea.
Oltre si prospetta la radicalizzazione di un “razzismo di classe”
legato alla crisi, in cui il timore che uno “straniero” ti contenda il
posto di lavoro o ti metta in condizioni di dover abbassar le pretese in
materia contrattuale e salariale, diviene il vero incubo. Un incubo che
potrebbe coagulare forze anche peggiori dei cialtroni leghisti o
riciclarne alcuni già con un passato fascista – Borghezio proviene da
Ordine Nuovo – verso percorsi di guerra fra ultimi e penultimi che non
potranno essere fermate da nessun governo bifronte ma solo e soltanto da
una risposta radicalmente alternativa alla crisi e alle cause che la
determinano.
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