giovedì 25 novembre 2010

Marchionne tra il dire (americano) e il fare (italiano)

Sergio Marchionne, l'amministratore delegato di Fiat, sembra aver capito come funziona il mercato mediatico: non importa quello che si dice, ma dove e come. In questo giorni, dagli Usa, Marchionne ha sentenziato: «Qui si agisce, in Italia si parla». L'occasione per questo nuovo giudizio arriva in occasione della visita del presidente Usa, Barack Obama, all'impianto della Crysler di Kokoma in Indiana. Su Chrysler il Gruppo Fiat investirà 843 milioni di dollari che serviranno a produrre un nuovo sistema automatico di trasmissione con trazione anteriore per i futuri veicoli Chrysler e che, allo stesso tempo, consentirà di mantenere 2250 posti di lavoro nello stabilimento Chrysler di Kokomo.
Ed è da lì che l'amministratore delegato del Lingotto ha dato l'annuncio, ricordando che negli ultimi 18 mesi la Chrysler (non Fiat) ha investito complessivamente nella sua "rinascita" 3 miliardi di dollari (un terzo dei quali è andato proprio nell'impianto di Kokomo). Quest'ultimo investimento «consentirà di trasformare i nostri prodotti e ci renderà leader del mercato», ha detto l'ad del Gruppo Chrysler di fronte ad una platea che a queste parole si è alzata in piedi ad applaudirlo, mentre in Italia si attende ancora un confronto tra azienda e sindacati sulla riorganizzazione degli impianti nazionali. A questo proposito, Marchionne - nel suo look americano - ha detto che un incontro istituzionale su Mirafiori è imminente, ma che molto probabilmente lui non sarà presente.

Forse un po' di ragione ce l'ha ma occorre forse anche precisare alcune cose.

Il 17 novembre il New York Times riportava un ampio articolo in cui si annunciava che le famose “Big Three” come si identificano le tre grandi produttrici di auto Usa, GM, Chrysler e Ford, rischiano di diventare due. Infatti, stando ai dati, le vendite di Chrysler non sono proprio ottimali anzi. Ad oggi ha venduto circa la metà di cinque anni fa e le prospettive non sono rosee. Inoltre mentre GM e Ford stanno facendo registrare profitti record, Chrysler al contrario è ancora in rosso. Ora il binomio Fiat-Chrysler punta tutto sulla nuova 500 che ha debuttato con un record di prenotazioni sul sito americano. Inoltre, alla faccia dei nuovi modelli ambientalisti, Marchionne ha annunciato anche un nuovo grande Suv modellato sul favoloso Grand Cherokee (appena rinnovato), da costruire in Usa e commercializzare poi in Europa coi brand Alfa Romeo e Maserati. Data prevista per questo Suv di fascia alta il 2013. Insomma per Fiat Chrysler è il cavallo di troia per importare sul grande mercato Usa i suoi brand.

L'entusiasmo di Marchionne per la realtà americana è senza alcun dubbio comprensibile. Ma non è tutto oro quello che luccica.

Sono in pochi a ricordare che la crisi aveva portato sia Gm che Chrysler sull'orlo della bancarotta e che a salvarle non sono stati l'iniziativa e il dinamismo capitalista, ma lo Stato. A ricordare che General Motors deve allo Stato americano ancora 43 miliardi di dollari che Obama ha sganciato al fine di evitare il fallimento dell'azienda. Che il braccio finanziario di Gm deve 14,6 miliardi. Che anche la Chrysler è in debito verso lo Stato americano per 8,2 miliardi di dollari e che Fiat è entrata in Chrysler senza metterci un euro: nessun investimento miliardario e gode di buona stampa perché i contribuenti americani ci hanno messo, appunto, parecchi soldi e perché i sindacati possiedono il 55% delle azioni, a relativa garanzia dei crediti dei lavoratori.
Tornando alle parole di Marchionne - in Usa si agisce mentre in Italia si parla - forse bisognerebbe ricordargli che negli ultimi 30 anni la Fiat ha ricevuto aiuti di Stato per oltre 7,6 milardi di euro. E' quanto ha determinato la Cgia di Mestre che ha fatto i conti in tasca alla casa automobilistica torinese che, a differenza degli Usa, non deve neanche restituire. Quello che gli viene chiesto è un piano industriale. Il che significa agire e smettere di parlare.

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