Va bene, pare che tutto il mondo “intellettuale” italiano, con tutto
il milieu giornalistico in prima fila, compatto e granitico, sia in
grandi ambasce per il rischio che Alessandro Sallusti, oggi direttore de
Il Giornale e al tempo dei fatti di Libero, finisca in galera a seguito di una condanna per diffamazione. E’
confortante assistere a una così poderosa levata di scudi contro la
restrizione della libertà personale, e dispiace semmai che tanta
compattezza non si veda in altre occasioni. Tanta gente va in galera per
leggi assurde e ingiuste – come circa tremila persone accusate del
bizzarro reato di “clandestinità” – eppure la notizia è Sallusti. Bene,
allora vediamola bene, questa notizia, al di là delle sentenze, delle
polemiche, dei meccanismi della giustizia. Proviamo insomma ad applicare
il vecchio caro concetto del “vero o falso?”
Il
fatto. Nel febbraio del 2007 una ragazzina di Torino (13 anni) si
accorge di essere incinta. I genitori sono separati. La ragazzina (che
tra l’altro ha problemi di alcol ed ecstasy) vuole abortire, ha il
consenso della madre, ma non vorrebbe dirlo al padre (i genitori sono
separati). Per questo si rivolge alla magistratura. E’ quanto prevede la
legge: mancando il consenso del padre si è dovuto chiedere a un giudice
tutelare, che ha dato alla ragazzina (e alla madre, ovviamente) il
permesso di prendere una decisione in totale autonomia. Come del resto
precisato in seguito, a polemica scoppiata, da una nota dettata alle
agenzie dal Tribunale di Torino: “Non c’è stata alcuna imposizione da
parte della magistratura”.
L’articolo querelato. Strano che, in tutto il bailamme suscitato dal
rischio che Sallusti finisca in carcere, nessuno si sia preso la briga
di ripubblicare l’articolo incriminato. Anche in rete si fatica a
trovare la versione completa, anche se basta scartabellare un po’ nella
rassegna stampa della Camera dei Deputati per trovarlo (andate qui e
leggetevelo: http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pa…).
L’articolo (Libero, 18 febbraio 2007) è firmato con lo pseudonimo di
Dreyfus (quando si dice la modestia) e racconta la vicenda in altri
termini. La prosa maleodorante e vergognosa – un cocktail di mistica
ultracattolica e retorica fascista – non è suscettibile di querela e
quindi ognuno la valuti come vuole. Ma veniamo ai fatti. La vulgata
corrente di questi giorni insiste molto su una frase, questa:
“… ci fosse la pena di morte, e se mai fosse applicabile in una
circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo e il
giudice”
E’ vero. Si tratta di un’opinione. Scema, ma un’opinione. Disgustosa, ma un’opinione.
Vediamo invece le frasi che non contengono opinioni ma fatti. Falsi.
Il titolo, per esempio: “Il giudice ordina l’aborto / La legge più forte della vita”.
Falso. Nessun giudice ha ordinato di abortire.
Altra frase: “Un magistrato allora ha ascoltato le parti in causa e
ha applicato il diritto – il diritto! – decretando l’aborto coattivo”.
Falso. Il giudice ha dato libertà di scelta alla ragazzina e alla madre.
Ancora: “Si sentiva mamma. Era una mamma. Niente. Kaput. Per ordine
di padre, madre, medico e giudice, per una volta alleati e concordi”.
Falso. Il padre non sapeva (proprio per questo ci si è rivolti al
giudice) e le firme del consenso all’aborto sono due, quella della
figlia e quella della madre.
E poi: “Che la medicina e la magistratura siano complici ci lascia sgomenti”.
Falso. Complici di cosa? Di aver lasciato libera decisione alla ragazza e a sua madre?
Ora, sarebbe bello chiedere lumi anche a Dreyfus, l’autore
dell’articolo. Si dice (illazione giornalistica) che si tratti di Renato
Farina, il famoso agente Betulla stipendiato dai Servizi Segreti che –
radiato dall’Ordine dei Giornalisti – non avrebbe nemmeno potuto
scrivere su un giornale il suo pezzo pieno di falsità.
Non c’è dubbio che il caso della ragazzina torinese sia servito al
misterioso Dreyfus, a Libero e al suo direttore Sallusti per soffiare
quel vento mefitico di scandalo che preme costantemente per restringere
le maglie della legge 194, per attaccare un diritto acquisito, per
gettare fango in un ingranaggio già delicatissimo. Ma questo è, diciamo
così, lo sporco lavoro della malafede, non condannabile per legge.
Condannabile per legge è, invece, scrivere e stampare notizie false.
Di questo si sta parlando (anzi, purtroppo non se ne sta parlando),
mentre si blatera di “reato d’opinione”.
Il reato d’opinione non c’entra niente. C’entra, invece, e molto, un
giornalismo sciatto, fatto male, truffaldino, che dà notizie false per
sostenere una sua tesi.
Per questo la galera vi sembra troppo? Può essere. Ma per favore, ci
vengano risparmiati ulteriori piagnistei sul povero giornalista Sallusti
che non può dire la sua.
PS) Un mio vecchio maestro di giornalismo, all’Unità (sono passati
secoli, ma io gli voglio ancora bene), scrutava i pezzi scritti da noi
ragazzini con maniacale attenzione. Quando trovava qualcosa di
querelabile ci chiamava e ci diceva: “Vuoi che ci portino via le
rotative? Vuoi che ci facciano chiudere il giornale dei lavoratori?”.
Nel fondo di oggi su Il Giornale, Sallusti lamenta con toni
da dissidente minacciato di Gulag, che non intende trattare per il
ritiro della querela, che ha già pagato 30.000 euro e non vuole pagarne
altri 30.000. Spiccioli. Ecco. Forse “portargli via le rotative”, come
diceva il mio vecchio compagno sarebbe meglio. Meglio anche della
galera. Di molte cose abbiamo bisogno, ma non di un martire della
libertà con la faccia di Sallusti.
http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/ - Alessandro Robecchi
(26 settembre 2012)
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