Cara compagna Susanna,
l’Italia è già da tempo divenuta post-Costituzionale,
dove la degenerazione democratica, al livello politico e istituzionale, trova
il suo perfetto corrispondente nella devastazione dei rapporti sociali, nella
dittatura senza più bardature del capitale sul lavoro.
Il pendolo, rimasto in equilibrio per oltre trent’anni di vita
repubblicana, si è qui da noi rapidamente spostato verso l’impresa, complice la
globalizzazione capitalistica e l’implosione di un’Europa che ha
costituzionalizzato il mercato, piuttosto che i diritti.
Il caso italiano ha tuttavia impresso
un’accelerazione a questo processo generale, dimostrando come politica,
cultura, ideologia possano trasformare modi di pensare, comportamenti,
equilibri sociali un tempo non lontanissimo dati per consolidati.
Accadono
fatti che si incaricano di produrre un’ulteriore, decisiva precipitazione, un
salto di qualità che - anche simbolicamente - dà il senso del mutamento che si
va producendo.
Una
fase che, nelle alterne vicende, ha visto un ruolo riconosciuto delle
organizzazioni sindacali ed un sistema di tutele e diritti che pur progressivamente
eroso, ancora manteneva una sua validità.
La vicenda Fiat incarna tutto questo, con una violenza tale da rievocare
la catastrofica sconfitta operaia del biennio rosso, sfociata nell’ascesa del
fascismo e nella cancellazione dello stesso Stato liberale.
Il diktat della Fiat esportato da Pomigliano a Mirafiori e destinato a
divenire il modello canonico delle relazioni industriali imperanti nel Paese,
cancella l’interlocutore sindacale, riducendolo al ruolo succube e sudditante
nei confronti del regime politico e di quello di fabbrica che fu dei sindacati fascisti.
Un modello neo-corporativo nel quale l’interesse dell’impresa - quali
che siano le forme nelle quali si esprime - viene fatto corrispondere con gli
interessi generali.
C’è - incorporato nell’editto di Marchionne - lo stesso divieto di sciopero, pena il licenziamento, che fu istituzionalizzato per legge nel ventennio. E c’è lo scioglimento d’autorità, dentro l’azienda, del sindacato, del solo sindacato indipendente rimasto in campo, la Fiom CGIL.
C’è - incorporato nell’editto di Marchionne - lo stesso divieto di sciopero, pena il licenziamento, che fu istituzionalizzato per legge nel ventennio. E c’è lo scioglimento d’autorità, dentro l’azienda, del sindacato, del solo sindacato indipendente rimasto in campo, la Fiom CGIL.
Questo poderoso colpo all’architrave su cui poggia la Costituzione e,
possiamo ben dirlo, la democrazia, sta portando alla manomissione di
quell'articolo 18 che nel lontano 1970, fece entrare nelle fabbriche la Costituzione.
Il diritto al lavoro è sempre stato, per la nostra organizzazione un
diritto indisponibile, così come per noi è fondamentale che il diritto alla
reintegra rimanga in capo al lavoratore e non al giudice che può decidere in
modo discrezionale.
La
riforma del mercato del lavoro, che prevede una riduzione degli ammortizzatori
sociali in un momento di recessione economica, accompagnata dalla flessibilità
in uscita e collegata alla manovra delle pensioni, genererà un emergenza
sociale di proporzioni straordinarie, dove i padri saranno contrapposti ai
figli e dove verranno espulsi dal mondo del lavoro intere generazioni di uomini
e donne considerati troppo vecchi per lavorare e troppo giovani per andare in pensione.
Oggi l'obiettivo di questo Governo è l'eliminazione di qualsiasi vincolo
alle scelte di libertà d'impresa (quindi anche quella di licenziare) che possa
interferire sull'obiettivo del profitto, del resto è stato chiamato per questo.
E' interesse del Padronato distruggere il sistema di “ tutele all'occupazione “
ed asservire la forza lavoro ad un nuovo quadro normativo che sostenga con
maggiore efficacia il loro interesse. Oggi la riforma del mercato del Lavoro
dice che bisogna creare un nuovo quadro normativo che rompa il legame tra forza
lavoro e posto di lavoro, con la libertà
di licenziare ed assumere, in qualsiasi momento a seconda della necessità,
senza sottostare a vincoli di rigidità, cercando di condizionare il quadro
politico e le stesse forze sindacali ad accettare la necessità di questo cambiamento.
Naturalmente tutto ciò viene spudoratamente presentato come l'unico modo
per affrontare la crisi, per non restare legati a vecchi sistemi, e per essere
quindi creativi ed innovativi, valorizzando la libertà di scelta degli
individui ed i valori della persona umana, contro ogni forma di “oppressione
burocratica” che deriva dalle organizzazioni e dalle contrattazioni collettive.
La liberalizzazione del mercato del lavoro, in entrata ed in uscita, l'assenza
di vincoli e di tutele, ci spiegano, dovrebbe essere vissuta come occasione di libertà e sviluppo
individuale, immaginandosi così scenari dove i lavoratori vanno e vengono, dove
il tempo di disoccupazione diventa tempo libero per la creatività e la
formazione, dove precario è bello. La forza lavoro e le stesse organizzazioni
sindacali, devono dimostrare “responsabilità”, e quindi disponibilità a
concorrere al bisogno di flessibilità ed al perseguimento di maggior
produttività ed efficienza. Tutto questo è inevitabilmente una follia, e noi
non possiamo essere complici di questo sistema.
Diventa
quindi decisivo calendarizzare le prossime 8 ore di sciopero, impegnando tutta la nostra organizzazione in
una corale risposta di lotta, capace di chiamare a raccolta tutti i lavoratori
e di costituirsi come il collante di un raggio amplissimo di mobilitazioni
sociali, perché, se la deriva non viene arrestata, ora, attraverso la lotta più
ferma e incisiva, diventerà molto più arduo farlo domani, perché a quel punto,
introiettata la sconfitta senza lottare, soccombere alla legge della prepotenza
apparirà come il solo atto ragionevole, suggerito dall’istinto di sopravvivenza.
Oggi
non ci possono più essere tentennamenti, tocca alla Cgil assumere in proprio
l'iniziativa dello sciopero generale, che ha sempre un valore costituente e
finisce per travolgere sul campo le reticenze politiche e i confini talvolta
ambigui dentro i quali si vorrebbe contenere l'espressione.
Non soccombere è l'unica condizione per riprendere domani un cammino
unitario che il cedimento di oggi ci precluderebbe.
L'atto di ostilità è rivolto contro tutto ciò che noi siamo e
rappresentiamo e non possiamo disperdere un così grande patrimonio di
esperienza, di sapienza politica, di moralità, sarebbe letale per noi, oggi,
una pura azione di rimessa, volta ad evitare il peggio.
Dobbiamo evitare di vivere di illusioni, di poter contribuire
alla soluzione della crisi e di partecipare, in qualche modo, in un secondo
momento, alla spartizione dei risultati.
Le delegate e i delegati della
“Cgil
che vogliamo” Filctem Brescia
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