mercoledì 30 settembre 2009

Imprese italiane non competitive perché da anni non investono più

Gian Paolo PattaAl minimo segnale di qualche 0,1 % di crescita di questo o quell'aggregato economico parte un coro che canta la fine della crisi. Sono coinvolti in questo gioco i governi e le istituzioni mondiali con qualche eccezione.
E' un gioco propagandistico comprensibile per gli interessi dei Governi che, però, rischia di produrre ulteriori danni se alla fine si resta prigionieri del gioco e si evitano gli interventi necessari.Soprattutto in Italia dove antica è la cultura che l'uscita dalla crisi deve essere trainata dall'estero e che il nostro destino è di attendere la ripresa del commercio mondiale guidata dalla crescita degli Usa, della Cina, della Germania, ecc…A che punto siamo? Il 2009 sarà recessione mondiale, l'Italia ci è arrivata peggio di tanti dopo un decennio di economia stagnante: dal 2001 al 2010 alle attuali previsioni avremo una crescita (!) in media d'anno dello 0,1%.
Dopo il congelamento delle retribuzioni per 15 anni, arriva la riduzione dei profitti, il calo dell'occupazione. Nonostante questo ci sono i professionisti dell'ottimismo - Confindustria compresa - salvo dimenticarsene quando si tratta di affrontare i rinnovi contrattuali o parlare del futuro dello stato sociale. Ogni tanto si intervista qualche imprenditore che la crisi neanche l'ha vista.Ma esiste un dato tenuto in gran conto, non solo dai marxisti, che indica la vera valutazione che i padroni danno della crisi e in particolare della possibilità che essi intravedono di guadagnare significativi margini di profitto: l'andamento degli investimenti netti.
Questi investimenti sono quelli nuovi e a differenza degli ammortamenti (consumo di capitale esistente), che hanno un andamento inerziale negli anni, sono una spia sensibilissima: un padrone che non vede all'orizzonte una remunerazione sufficiente del capitale non investe. Non vede sbocchi di mercato.
L'Istat ha comunicato i dati del pil del secondo trimestre 2009 con l'ulteriore calo sul già pessimo primo trimestre che oltre a confermare che la crisi non ha toccato il fondo, comunica dei dati di una gravità senza precedenti sulla caduta dei nuovi investimenti. Caduta che alimenterà ulteriormente il calo dei consumi. Per le conseguenze che ne deriveranno sia nel mercato dei beni di investimento come in quello dei consumi, a causa della ridotta capacità di consumo di coloro che operano nel settore della loro produzione.Il calo rispetto al corrispettivo secondo trimestre del 2008 è stato del 69%. E' il dato peggiore dal dopoguerra. Il calo sul precedente punto più basso toccato dagli investimenti netti, il 1993, in valori deflazionati è del 39%. Difficile stante la bassa utilizzazione degli impianti ipotizzare una ripresa a breve.
Esaminando le statistiche sugli investimenti netti in precentuale sul pil (dati Istat sui Conti economici trimestrali) emerge un loro inesorabile tendenziale declino e come gli stessi, relativamente al precedente peggiore, il 1993, si siano dimezzati (1,7% contro il 3,5%).Questa caduta continua degli investimenti spiega, in parte, perché l'Italia non ha retto la sfida della globalizzazione e perché il suo peso sul Pil mondiale stia continuamente riducendosi.
era il 4,1% nel 1980, è caduto al 2,6 nel 2009 e il Fondo monetario Internazionale prevede che sarà del 2,1 nel 2014.Per farsi un'idea delle conseguenze dell'attuale crisi vale la pena ricordare alcuni dati della crisi precedente, del 1992-93 (molto meno grave di quella attuale).
Osservando altri dati Istat (quelli sugli investimenti netti trimestrali-valori concatenati, quindi al netto dell'inflazione) si può vedere come dopo la crisi del 1992-93 ci vollero oltre 10 anni (terzo trimestre del 2002) per tornare ai livelli degli investimenti netti della fine del 1991. Gli occupati diminuirono lentamente: -167 mila dal '91 al '92, 781 mila dal '91 al 1993, per precipitare a meno 1milione 191 mila nel 1995.
I 23 milioni di occupati del 1991 si riebbero nel 2001. Dieci anni dopo.
da Liberazione

Nessun commento: